Fantasia, Favola

Altrove, sempre altrove

C’è anche chi vive la notte con spensieratezza.
Certo non si può dire la vita di nessuno costituisca un monolite insensato o immutabile, una sola visione del mondo: e nessuna asserzione incontrovertibile. Però. Però ci sono le maggioranze, le maggior parti e le grandi probabilità. Ecco: c’é anche chi vive la notte con spensieratezza. Non sempre.
Tante notti questi le teneva trattenute in un luogo remoto fra coste e colonna vertebrale, incastrato sottopelle. Erano quelle trascorse, da finché era stato un bambino, lontano da casa – altrove, sempre altrove.
Talvolta non aveva nemmeno saputo o ricordato il profilo delle cittadine dove, di notte, guardava il panorama. Le stelle erano sempre le stesse e anche un bambino di questo tutto sa; alla mamma magari una telefonata, ma non sempre, perché a quell’ora tarda dormiva. Erano state notti serene, di successo per tutti tranne che per lui. Non le ricordava con tristezza.
Queste non le raccontava; esistevano ancora per la persona adulta che talvolta scompariva senza lasciato detto dove andasse, e che aveva affrontato il buio senza luce della natura cullato dalla consapevolezza di trovarsi sulle labbra altrui senza venirne baciato. A volte tutto diventava troppo. Eppure non sembrava un male.
C’è anche chi vive la notte con spensieratezza, e a trent’anni suonati le angosce adolescenziali sono passate com’é passata l’acne – chissà se per qualcun altro così non era, e chissà se fosse da prendere come un segno, per quanto giocoso o leggero. Le tragedie sono altre, e il buio notturno diventa una consapevolezza rassicurante. Quello della morte; più vicina di quando si è bambini, ma ancora lontana tanto da non doverla programmare. Se ne avverte appena appena il profumo. Allora diventa buona cosa approcciarla, ricercarla, perché l’odore pungente che emana diventi un retrogusto quasi rassicurante, per quando e come verrà.

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Commento, Filosofico, Metafisico, microblogging, Personale, Saggio

Le sconfitte di Napoleone, Lapalisse: ammetto l’assurdo e altri tre pensieri

Le sconfitte di Napoleone

La tomba di Napoleone non l’ho veduta di persona. A Parigi ho incontrato le tombe di Voltaire, di Rousseau, di Skłodowska e di Hugo; non quella di Napoleone. Gargantuesco e pantagruelico (!) l’appetito di tanto porfido rosso! Un volume smisurato solido per un corpo piccolo tanto quanto un qualsiasi corpo umano.

Davanti alla tomba di Napoleone che sovrasta in altezza quattro uomini non mi sovvengono le vittorie di Napoleone ma la sua ultima sconfitta: quel tipo di sconfitta che in vita non è possibile riscontrare, perché terminale, sensibile solamente al termine della vita stessa; Napoleone non sarà mai tanto immortale quanto avrebbe desiderato essere. Non: non sarà mai immortale come aveva desiderato (vero per certi versi, inesatto per altri: morto, sì, ma solo nella coscienza di chi l’abbia avuto vicino in vita, così com’è vero per qualsiasi altra persona – che differenza apporta la morte di chi non hai fatto esperienza in vita? Una morte apparente o vita raccontata non distano) ma non tanto quanto avrebbe desiderato, cioè non effettivamente divino. Chissà. Tanto spreco di porfido (porfido o imitazione?) per una persona sola e per il gusto di perseverare nelle coscienze altrui lungo il brevissimo periodo di pochi secoli.

Pochi secoli non bastano ad una stalammite per estendersi di millimetri. Che cosa vogliamo mai fare noi, che non siamo roccia?

(Forse la reazione è proporzionale soltanto alla misura in cui ci si trova feriti dal constatare che l’ambizione altrui non è più vile della propria. Questa sera ogni forma di ambizione mi sembra olezzare di zolfo.)

12 ottobre 2022


Sulla scrittura I

Non è dubbio che la percentuale di persone che si approcciano alla scrittura o, in maniera compiuta, arrivano a pubblicare qualche proprio scritto è aumentata in maniera molto forte nell’ultimo secolo o poco meno.

Mi rendo conto della poca veridicità della prima espressione, o meglio della sua incertezza. Non si può determinare con alcun grado di sicurezza, nel limite della coscienza della poca diffusa scolarizzazione e alfabetizzazione, chi fosse appunto in grado di scrivere versasse questa propria capacità nello stilare un diario personale come forma di auto analisi. Alcuni di questi diari sono stati poi pubblciati, se non dagli scrittori, da qualche altro amico o storico nel caso di personaggi rilevanti – e non. Ad ogni modo l’atto della pubblicazione di un diario, se non avviata dallo scrivente stesso, non è da considerarsi intenzionale quando attuata da qualcun altro che si sia trovato in facoltà di occuparsi di queste scritture.

Questa stessa è una bozza che precede lo stilamento di un più compiuto e accessibile saggio a riguardo, limitatosi all’esperienza descrivente/scrivente che solo lateralmente tange quella del lettore e della biblioteca.

Si scrive per differenti ragioni. Alcune di queste, o almeno la premessa che spiega le mie, sono già state accennate in uno degli articoli precedenti, forse il primo davvero che sia stato posto qui. Si trattava però di inclinazioni personali e assolutamente particolari rispetto a quel dato progetto.

Esiste la scrittura come forma di autoanalisi, e di autogodimento o passatempo (“In treno porto sempre il mio taccuino: bisogna pur aver qualcosa di fantasmagorico da leggere”); e la scrittura come comunicazione, figlia istruita del parlato. Parlato si intende non interiore ne delirante ma estroverso e significativo.

Se è ovviamente lecito scrivere-pensare qualche ovvietà precedentemente espressa, è però altrettanto lecito scrivere-pubblicare la stessa? Non si intende un esempio in buona fede, ovvero lo scrivere-ideare qualche cosa di cui non si conoscono i limiti storici, perché laddove l’ignoranza sopperisce alla personalità non c’è maniera di determinare quanto già stato fatto. Esempio: può essere che queste ovvietà da me ripetute siano pari ad un prodotto pubblicato in altro luogo in altro tempo, oppure anche solamente compite e poi perdute nel tempo stesso.

Non si intende nemmeno il plagio vero e proprio. Si intende invece la limitatezza nella conoscenza, ovvero: giungo ad una conclusione, trovo che è già stata condivisa; prendo coscienza del fatto che questa conclusione sia già stata espressa, ma non rinuncio al mio diritto di esprimere la stessa. Questo si estende alla dimostrazione di data conclusione quando la stessa è conosciuta.

Va da sé che una forma tale in opera matematica non ha alcun senso. Discopro io una proposizione: la dimostro così com’è stata precedentemente dimostrata. Ora, non ha alcun senso che io pubblichi questo, anche perché relativamente facile constatare se nella letteratura questa mia pseudo-scoperta abbia un precedente identico.

Quando invece si parla di un proprio pensiero non strutturato–e che cosa rimane? Forse, ma stentatamente, la filosofia: negli ambiti della coscienza si scade velocemente nella più nera malafede: sicuramente nel romanzo e nella poesia, nella supposizione, nell’immaginazione. Ecco, indirizziamo il tiro: è lecita o significante la ripetizione nell’opera immaginativa-raziocinante non filosofica?
Non si esclude che questa parte di ragionamento sia parte integrante stessa della supposizione, cioè soggetto e oggetto dell’elaborazione.

22 maggio 2022


Lapalisse: ammetto l’assurdo

Scendere a patti con se stessi è necessario. Negarsi a se stesso e sottrarsi la padronanza dei propri difetti tolgono all’individuo gran parte della propria capacità di autodeterminazione. Questi vizi cedono la mano all’intervento esterno, ma soprattutto rendono fragile l’individuo, che, sempre temendo l’intervento esterno, in procinto di avvertirlo balenare su di sé laddove questo forse nemmeno esiste, non vivrà con serenità l’interezza del proprio essere, ma anzi svilupperà verso questa un terrore inconsapevole.

[…]

Sento lasciando ogni volta lo studio di non aver studiato abbastanza—come non avendo approfondito qualcosa di già iniziato, come non avendo bevuto tutto il caffè caldo oppure terminato di ascoltare l’opera bella. Come se un piacere mi venisse sottratto.Capita ogni singola volta: forse è qualcosa di patologico o forse il sintomo collaterale, paradossalmente confortante, della maturazione nei tempi di concentrazione più lunghi e della fame di studio che torna.

stavo lí lí per scrivere: “l’angoscia diminuisce”, ma in procinto di farlo le mani subito tremano e vacilla anche il battito; sarà per la prossima volta.

non ho una briciola di competitività (positiva) nel corpo. Fa di me una persona costruttivista.

Però qualche progresso lo vedo e non voglio negarmelo. Anche smettere di fantasticare sul nulla e fare i conti con la propria inadeguatezza è pur sempre un far di conto, se anche meno faticoso di altri, e la supponenza di poter fare molto deve sempre accompagnarsi alla consapevolezza di saper fare quasi niente. Così si va riscoprendo Socrate eccetera eccetera. Allora ipotizzo di aver sempre chiamato studio la sanissima ossessione del mio amore verso certi argomenti più o meno disparati, e che lo studio, quello vero, sia un’altra cosa, ovvero l’amore stesso dell’ossessione necessaria a portare dentro di sè quello che ne è sempre stato fuori. Ho sempre svolto ricerche profonde verso nicchie poco frequentate per cui per altri il confronto con la misura della mia effettiva conoscenza ha sempre costituito un paragone arduo da quantificare. Come una persona adulta, adesso, debbo ammettere di essermi incurabilmente non-bastevole: sarò per sempre bambina terminale verso il Tutto e non aver timore di essere scoperta.

17 ottobre 2022


A proposito di diari

Tengo su per giù un paio di diari. Quello onorato è un quaderno cartaceo rilegato che porta incisa la partitura dell’Erlkönig di Schubert, con segnalibro a nastro rosso e foggia blu iridescente. Non è un oggetto artigianale ma ricade nell’intersezione di quei prodotti industriali altamente personalizzati—che non ho ancora valutato se sia lodevole o triste, decisione poco interessante finché i prodotti sono gradevoli e utili. L’acquisto di questo diario l’ho programmato ed è stato effettuato qualche mese fa—l’etá! Non ricordo se fosse addirittura l’anno scorso, e che sia testamento della confusione di quei giorni—a Pisa in questa maniera: stazione di Pisa, polo Fibonacci, Corso Italia, polo Fibonacci; a piedi, in ritardo sulla lezione. Chi conosce la città saprà valutare se un desiderio così sommariamente eseguito abbia avuto un senso. Insomma, questo diario è il Diario ed è cartaceo. L’ultima entrata è datata ad un generico Giugno 2022; prima di questa, giorni di aprile.

Tengo poi (stavolta in senso quasi letterale: supporto sullo smartphone) un diario digitale, i cui contenuti sono stati travasati da un altro diario digitale che a suo tempo aggiornavo con regolarità. Lo utilizzo per le foto perlopiù. Il mio archivio è personale e sui social gocciola residui che non sono un decimo del suo corpo—fotografo molto, in alcuni casi considerando quanto ritraggo e in molti altri per fermare un frammento temporale—che sfoglio spesso con amici al fianco. Questo diario è più simile ad un cestino: c’è affollamento, c’è anche disordine.

Il calendario (anche di quello ne tengo due copie, uno cartaceo a muro e l’altro virtuale) assume da sè certe innegabili caratteristiche di diario, ma siccome nessuno chiamerebbe mai diario un calendario e viceversa consideriamo i due oggetti sufficientemente distinti da indossare il paraocchi e proseguire coi libri in mano.

Il blog D’idilli e di pinakes così come questo blog informale (ffoco.tumblr.com) non sono diari. Ritengo la pubblicazione negli spazi virtuali sempre più vicina alla pubblicazione editoriale che alla stesura di un diario, nonostante la bassa aspirazione contenutistica di alcuni social o dei loro avventori.

Sia nel Diario che nel blog principale ho trovato un vuoto consistente per i mesi di Aprile, Maggio e Giugno. Non sono stata male in quei mesi; tutt’altro: sospetto anzi questo, che la fortissima avversità—quasi fisica—avvertita negli ultimi mesi ogni qualvolta mi sono avvicinata alla pagina bianca sia derivata da un istinto di auto-preservazione. Temendo di scompigliare l’ordine precario della mia persona, non ho ardito scandagliare in lei nemmeno per fissarne le impressioni private. Ora mi sarebbe piaciuto ripensare quanto ho pensato nei mesi passati, ma non posso: almeno non più, almeno supponendo che io non pensi adesso quello che pensavo allora. Non c’è modo di dirlo: non lo ricordo piú.

In quei mesi non ho fatto poche cose di poco peso. Non fatico a ricordare i fatti: a casa la vita benedetta con mia madre, e a Bologna l’incontro con Vivica Genaux, la frequentazione con Carlo Vitali, le raccomandazioni. Sono i pensieri il problema. Nemmeno ora faccio poco: ho un esame in vista (di cui non riesco a prevedere l’esito, ma il cui materiale mi piace); oggi ho dato le mie prime ripetizioni di matematica, che male non fa; sono volontaria di un collettivo freschissimo e socia di un’associazione storica in cui mi si prospettano incarichi rilevanti; ho due viaggi non brevi in programma e un coniglietto che mi rallegra il cuore quando dorme sopra di lui.

Eppure i fatti non mi bastano,

e alla me di ieri avrei voluto chiedere che cosa abbia pensato proprio mentre riteneva che i suoi pensieri non fossero meritevoli di essere ricordati.

Gli scritti come questo non sono rivisti e non nascono (o almeno non muoiono) per essere letti sul mio vero blog, lucreziaignone.wordpress.it — si chiama D’idilli e di pinakes. D’idilli e di pinakes si chiama anche il tag con cui cercare i miei scritti in questa pagina, auspicando la possano presto prendere d’assalto e asservirsi ad un vero, astratto diario umano.

30 giugno 2022


Molti ambiti della sociologia contemporanea sul web, e questo è un nome forse inadatto che serve soltanto a racchiudere tutto il dialogo online riguardo colpe ereditarie di popoli, forme di razzismo eccetera, sono dominati dal pensiero d’odio. Tutto diventa declinazione di odio: mi pare che si legga il mondo, o le sue dinamiche, al contrario. Dalla pozza alla sorgente e non il contrario.

L’odio non sarà mai più forte del potere. Eccedendo dalle dinamiche strettamente interpersonali, il sentimento d’odio di un uomo non sarà mai più forte del desiderio di potere. Per certi versi l’odio stesso, o la sua attuazione, discende da un desiderio di strapotere sull’altro, ma esula dal discorso…

Fra genti, razze, dinamiche commerciali e di appropriazione, proprietà e governo non sgorgano dal cuore di un uomo putrido. La peggiore discriminazione sgorga dal più misero conflitto di potere. Laddove l’odio e la sua esplicitazione può diventare strumento, così non è per il desiderio di potere, che può essere espresso ma mai diventare macchina di un fine secondario.

24 gennaio 2023

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Fantasia, Favola, Metafisico, Musicisti, Periodo romantico, Senza categoria

Papillons de nuit — 2018

Ora alcuni dalla livrea nivea, signorotti-calabrone e coccinelle ciondolavano nel salotto, sparsi: interrompevano di tanto in tanto il volo per penzolare dalle bocche di un’orchidea singolarmente carnosa, cucendole addosso abiti di miele. Con quale obbedienza si piegava allora il più tenero petalo! – la stessa che la formica, cento volte più impacciata, tentava di contraffare. Eccetera eccetera.

Ispirava un certo diletto figurarsi che l’insetto non fosse in realtà tale, ma un uomo; distinto per di più, forse un conte.

L’occhio è facile a perdersi tra così diverse attrattive; nessuno avrebbe potuto fare una colpa al moscerino che, istupidito dalla mantide, sorseggiava champagne come acqua, affogandosi volentieri a morte insieme nel nettare e nel profumo di lei.

Eppure quella sera, uno qualsiasi, stringendo un retino concettuale, avrebbe guardato con dispiacere alla penuria di farfalle. Forse che fossero tutte trafitte di spilloni ed incorniciate in altri salotti?

Era d’altronde difficile capire se fosse flora o fauna l’artista che, leggero, arrivato in ritardo, salutava i nuovi avventori con lo stesso piglio della Principessa, e, più greve, ondeggiava negli immediati dintorni del pianoforte Erard. Del lepidottero incarnava forse quella caratteristica che, per un bizzarro gioco di parole, l’animale porta nel nome: F. L. possedeva l’aspetto stesso della lepidezza. L’amante-prodigio della Principessa vagava sottile come uno stelo tra la gente. Una ghirlanda di capelli ricadeva serica su spalle vestite in nero: si guardava attorno, sperando di venire attratto.

Ma un occhio nervoso e fresco coglie ogni cosa.

Quelli della principessa B. erano tempi ancora lontani dal vecchio adagio: “L. andava alle nazioni, ora le nazioni vanno da L.”. Certamente il ragazzo, un bel fu wunderkind mangiato vivo dalla melanconia, non pretendeva più gli ossequi delle corti a lui prostrate.

Non ancora.

Allo stesso modo egli non poteva nemmeno esigere che un avventore – un nobile?! non gli aveva forse insegnato nulla il conte, padre di Caroline? – si muovesse verso di sé, nonostante tale eventualità stesse diventando sempre più frequente: a stento teneva botta col corteggiamento serrato che la libellula D’Agoult vergava per lui su carta rosa.

Per questo: ma anche per poco interesse nel resto, per voglia di far la ruota, per un’inesauribile sete di opportunità: per tutte queste ragioni, in un battito di ciglia il virtuoso fu di fronte a chi lo chiamava. Se anche fosse stato privo di ogni educazione pianistica, la sua bellezza soltanto gli sarebbe valsa un posto di riguardo nelle gerarchie parigine: impigliato nelle gonne delle più costose madame.

Un incarnato austriaco si incavava con dolcezza su di un’ossatura magra: alto: gettavano riflessi non solo le ciocche lunghe, che a volte, se preso dall’entusiasmo, gli ricadevano sul viso, velandolo tutto escluso il naso; ma anche lo sguardo luccicava tenero e intelligente. Col suo verde giocava il rossore delle labbra. Parlava così come appariva.

— Non v’ho mai veduto prima da queste parti. Ma mi rallegra conoscervi ora! Il mio nome, signore, è F. L. —

Eppure il L. pendeva dalle labbra del barone come un allievo da quelle del maestro. Scena usuale. Un qualsiasi interlocutore lo avrebbe difatti innamorato finché avesse dimostrato autorevolezza nella sua materia: indifferentemente da quanto repulsivo o pericoloso tale personaggio sembrasse. Ascoltando, appariva a volte cieco, come che l’intelligenza lavorasse per lui soltanto attraverso le orecchie.

Se però egli nell’ambito musicale si considerasse occupare un punto indefinito della scala gerarchica – là dove, pur potendo servire da insegnante al pubblico, guardava atterrito e colmo di timore riverenziale ai più alti intelletti -, non avrebbe potuto dire lo stesso delle scienze. La propria ignoranza era però relativa: costretto dalla statura morale del barone, poiché coscienzioso, arrossendo di vergogna e curiosità, dovette confessarla.

— Spero che la cultura francese possa soddisfarla nei riguardi di questa scienza nascente. Ricordo di essere stato piccolo quando il maestro di scuola ci accennò che Ducrotay de Blainville, —

L. pronunciò con un accento tedesco squisito ma fuori luogo, data sia la nazionalità del nome sia la propria inflessione parigina

— se n’era uscito con una nuova parola per classificare gli insetti: hexapodi, sì? Posso assicurarle, sperando di non offenderla, che allora molti di noi sessanta ci credemmo dotti già solo contando le zampette di quelle povere mosche che raccoglievamo tra l’erba. —

— Dimenticai la vostra arte per anni. La riscoprii quando volli ampliare quella poca cultura generale che mi fu insegnata in fanciullezza. Se conosce il mio nome, sa anche che sono sempre stato musicista. Euterpe è una diva gelosa. Solo quando le fui distante potei studiare altro. Letteratura mondiale, scienze matematiche, storia antica e moderna, religioni: mi educai quanto necessario e più su tali cose per poter essere pari a quei nobili, come voi, con cui stringo più volentieri amicizia. —

— Ma il buon maestro di Doborjan ignorava persino la geografia: così che ho dovuto scegliere da solo su quali materie erudirmi. Mi perdonerete! Se potessi non chiedervi riguardo spiritromba o celle, di cui ho solo una vaga impressione, dovrei allora domandarvi dove si trova la regione finlandese. D’altronde la mia cernita privilegiava quegli argomenti che mi avrebbero aiutato di più nella conversazione, e credo abbiate notato già da voi che di entomologi con cui discorrere, in questi ambienti, non se ne trovano molti. —

— Fra le lingue che ho imparato non figura quella degli insetti, — chiosò: ma lo fece quasi sottovoce mentre, voltata indietro la bella testa, squadrava un dilettante che si era appollaiato al pianoforte. Si rivolse quindi al naturalista.

— Per una coincidenza succede che uno dei nuovi esercizi di Chopin sia stato ribattezzato “della farfalla”. Egli non annette mai nomignoli alle sue composizioni, ma altri lo fanno. Mi piacerebbe eseguirlo per voi, se non avete ancora avuto modo di sentirlo… non appena si libererà lo sgabello. —

— Nel frattempo, spero mi permetterete di rinnovarvi gli onori di casa col buon champagne che i valletti tengono nella sala a fianco! La principessa non mi rimprovererà di aver festeggiato con voi la riuscita di un così tortuoso viaggio… signor Otto M. K.-K., dei baroni K. di K. —

Quali paesaggi si dipingevano nelle pupille del suo interlocutore!

L’affamato, il bramoso, il batticuore L. proprio non faceva altro che condurre lo straniero come un esile e fedele spettro. Una propagazione della vera padrona di casa. Non meno di lei carismatico né dignitoso: ma più di lei fiducioso e paziente, come tanti orfani.

Forse che il barone potesse indovinare il tallone di cristallo in quell’opera d’oro e diamante?

— Io vengo dai prati. Però mi piacerebbe un giorno sia rivedere la mia casa sia venirvi a trovare, — soggiunse con un bel sorriso.

Nel movimento il ciondolo che portava sempre indosso gli sgusciò da sotto la cravatta: accortosi di ciò, lo rimboccò al suo posto, con naturalezza. Sia mai che potesse offendere le credenze – o non credenze – di un così interessante professore! Salotti come quello della principessa contenevano la più varia umanità. Liszt, con la sua croce, era in minoranza.

— Ecco, — fece, reggendo le coppe date in mano sua dal valletto: ne porse una al barone, trattenne l’altra. La sollevò con gioia nella sua direzione.

— Alle vostre peregrinazioni! E che Parigi vi piaccia, sia mai. —

— No affatto! Anzi mi rassicura, perdonate questo capriccio, che voi non pronunciate il Suo nome con ingiuria. VederLo in ogni elemento è ben l’opposto, penso… —

Accennava a queste cose con una vocetta timida e intima, come che da una parte preferisse non venir sentito. Temeva soprattutto che egli ne ridesse. Oh, gli si sarebbe frantumato il cuore! Ma che si può aspettare da uno scienziato?

Dopotutto soltanto all’amico Berlioz, ateo, il penitente L. aveva confidato il suo sogno: lo stesso da sempre – il più segreto. Ma chissà che, se avesse indossata la talare, il Barone biologo non lo avrebbe evitato come la peste, deridendo un’incarnazione così esplicita della cristianità.

Egli bevve l’intero bicchiere in un sorso. Si avvide che la croce fosse rintanata, nascosta tra il petto di giunco e la cravatta. Dunque guardò alle mani dell’uomo.

— Mi piacerebbe molto che annotaste queste vostre considerazioni e memorie, così che possa leggerle. Lo farei spesso. Non oso chiedervi di aggiungerne altre, ma sarei tutto vostro se lo faceste, —

scherzò. Ma quale cuore avrebbe negato favori ad un così gentile modo di porsi? Persino tra le affettazioni del salotto spiccava la sua tenerezza: difficile capire se fosse propensione, interesse personale o entrambe. Toccò la mano del barone. Tornarono nella sala più grande.

— Finalmente! — sospirò con un guizzo comico alla vista dello sgabello vuoto. Prima che chiunque altro potesse rivendicarlo, lo assalì: suonando come aveva promesso. Desiderava per prima cosa far sentire l’opera di Chopin al suo nuovo conoscente. Chopin! Dolce e armonioso genio!

Si alzò con un sorriso di circostanza, reggendosi con fare retorico al pianoforte e chinando la testa. La Trivulzio lo prese subito: come che, avendolo sentito suonare, si accorgesse ora della sua presenza. Si salutarono in quanto amici, baciandosi le guance.

Ma l’attenzione di L. aveva un altro oggetto favorito. Sbirciando tra le teste, vide il Barone intrattenersi, bisbigliare con uno sconosciuto.

Non appena egli si fu avvicinato, riguadagnò una certa brillantezza di espressione, ma meno schietta, che occultava una punta di circospezione.

Si rivolse allora al barone e alla principessa. Certo, fra di loro, si sarebbe detto con naturalezza che avesse un bel titolo prima del nome.

— Non posso sapere se vi siate presentati mentre suonavo. Mi perdonerete di non avervi elogiato l’un l’altra. —

Un musicista!, si sentì dalla piccola folla: L. lasciò cadere il complimento con un risolino compiaciuto.

Fortunatamente la principessa fu attirata altrove.

— Devo dire che vi ho ripensato, e non posso trattenermi dal chiedervi ancora una volta di scrivere, se sentite anche la minima inclinazione. Paesaggi contemplativi potrebbero ispirare una seconda Hypnerotomachia o Psicomachia; chissà. —

— Perdonate la voce bassa. Vi ho visto parlare con un uomo che non conosco, ma mi ronza attorno da tempo, continuamente, senza tuttavia presentarmisi. Ne sapete qualche cosa, voi? —

Il ragazzo non mosse gli occhi color dell’oliva: fermo come prima, ascoltando, li teneva fissi sulle fioriture sul tappeto. Aveva le mani avviluppate dietro la schiena: uno le poteva vedere, lattee e snelle, pizzicarsi, nervosamente, come fa il plettro sulle corde di uno strumento. Dondolava impercettibilmente sulla punta delle scarpe laccate.

— Sembrate saperne molto, — commentò con un tono che non necessitava di risposta.

Solo allora mostrò di nuovo con chiarezza il viso.

Un broncio preoccupato aveva sostituito il sorriso: niente affatto patetico, nè estremo; sopracciglia corrucciate a quel modo potevano appartenere ad un imberbe argonauta. Suggerivano la più sottile circospezione.

Per quanto avrebbe letto volentieri dell’argomento, per fronteggiarlo direttamente avrebbe dovuto indossare un’altra maschera: quella che stava velocemente rimodellando i suoi connotati.

— Vi inviterei a farlo, se non credessi che chi è servitore dell’umanità, come voi o me, non può permettersi di partecipare a troppo pericolo. —

— Posso offrirvi un sigaro? — domandò quindi. Certo voleva allontanarsi. Un pigolio lontano lo convinceva di fuggirsene il prima possibile, ma non avrebbe potuto mettere il dito sulla fonte del proprio fastidio.

— Se fumassimo, vi pregherei di potercene uscire nei giardini… —

Annuì come a persuadersi che sì, quella era la migliore cosa per entrambi.

Lo fu?

Aveva cambiato portamento: pareva che potesse da un momento all’altro sfuggire alle attenzioni del tanto ricercato interlocutore, smaterializzarsi nel fumo che si prometteva con lui di espirare: tanto elusivo il giovane sembrava, come il riflesso di un opale.

In poco tempo furono sulla terrazza. Dovunque era buio e frescura. L. non era più indigente: lo dimostrò la qualità del tabacco che prestò al barone.

Non appena vennero i fantasmi, la creatività del L. prese il volo, non senza una punta di spavento. Quelle sagome erano forse le stesse vedute mille volte nel letto, avvolte dalla febbre, o quelle fumantine e allegre di Bacco? certo si poteva escludere quest’ultima ipotesi: non avevano bevuto proprio granché, lo champagne era leggero.

Stette a rimirarle con un velo di meraviglia finché il barone non parlò. Allora gli rivolse occhi sconvolti. Questo significava che entrambi le avevano davanti! Capirlo spezzò la piccola ed intima illusione che deriva dal credersi soli in compagnia: di essere immersi in un mondo sensoriale solo nostro, imperscrutabile anche al più vicino interlocutore.

Scelse dunque, boccheggiando distrattamente il fumo, di andare per esclusione, ed escludere appunto tutte quelle spiegazioni che avrebbero avuto come prerogativa una propria esperienza personale. Non erano allora gli spettri dei tanti malati o delinquenti visti morire nei manicomi o nelle carceri, negli obitori, là dove si avventurava sin da bambino per espiarsi: non erano venuto a cercarlo, non ancora. Credeva tuttavia all’amico Schumann: sarebbe successo presto.

Seguì con entusiasmo il barone. Senza mai parlare, non ancora, ma raggiante di eccitazione, con quell’adrenalina un po’ intimorita…

Dal suo posticino tra le frasche, Liszt guardava con gli occhi sgranati. Quando aveva cominciato a sognare? Nulla della scena poco lontana pareva essere vero: non quelle voci affamate, non quei disegni intellegibili.

Quei volti erano macchie di colore per lui. Non avrebbe saputo dire cosa glieli rendeva tanto spaventosi – a malapena ne distingueva i connotati: si era rovinato la vista leggendo – e questo lo elettrizzava ancor di più.

Svelto, rintanato nel buio più umido, rimaneva acquattato e silenzioso, impegnandosi a giustificare quelle cose grottesche con la logica claudicante dei sogni. Proprio non poteva essere tutto vero; sembrava parlassero di lui, come di una preda.

Il pugno di minuti trascorso “sottoterra” parve a L. durare un’intera notte onirica. Non si sarebbe potuto biasimarlo: chi, dopo aver assistito a fuochi fatui, udito voci celestiali contrattare la propria pellaccia e contato tizzoni di foglie, non si sarebbe aspettato di svegliarsi nel letto, ricoverato da un fervido sonno? e in particolare, quale compositore, non appena compresa la fecondia di tali visioni, al momento del risveglio non si sarebbe gettato sulle carte per immortalare un possibile prodotto facile?

Il giovane virtuoso sbucò dal suo cespuglio qualche istante dopo essere stato chiamato. Fece capolino, poi si stanò e raggiunse il barone. Si squadrava attorno in maniera più esterrefatta che circospetta.

— Non sono sicuro che chiedervi cos’è appena successo sia una buona idea. —

Ma la faccenda cominciava a puzzargli e non poco. Il candore con cui il suo interlocutore infiorettò quel — buon? — proposito lo indispose profondamente: il giovane virtuoso si trasse indietro in maniera impercettibile, inarcando una schiena ancora di giunco, sollevando occhi marini sul giardino infestato.

Tacque e seguì il professore senza tuttavia avere acconsentito. I bagliore rari e tenui dell’esterna sembravano diventare sempre più recessivi nel buio che avanzava, e i due li fuggirono annidandosi in camere ancora abitate.

Dopo un eterno indugiare, il ragazzo affiancò il barone K. e gli parlò pressoché all’orecchio.

— Sembrava parlaste di me a quelle ombre, sapete? —

Il giovane non levava mai lo sguardo dalla faccia del barone. Le pupille, complici le luminarie, si erano ristrette a capocchie nere di spillo: galleggiavano in maniera peculiare nel verde luminoso delle iridi e con una certa saldezza di riflessi che manifestava allarme, come di un animale esotico che rimanga accostabile solo per curiosità del suo visitatore. Talvolta L. pareva reggere il cuore in mano.

Si calmò, almeno in apparenza, dopo aver udito le rassicurazioni dell’amico: accompagnò la voce con un breve cenno del capo.

— Vi ringrazio. —

Ma chi era l’uomo che gli stava dinnanzi? Chi era quell’oscuro aristocratico, presentatosi tanto goffamente quanto adesso si rivelava dominatorio? In quali arti era davvero maestro?

Soprattutto perché si era appellato a quelle foschie come un compagno a vecchi, invisi amici? Man mano che ci ripensava le ombre acquistavano contorni sempre più netti, voci più umane. Tant’è che il ragazzo si persuase, lentamente, di non avere scorto né spettri né sogni né prestidigitazione, ma una cosa infinitamente peggiore: uomini la cui sola anima doveva essere nera e spettrale quanto le loro proiezioni sul terreno.

Il collezionista di farfalle l’aveva davvero liberato da quei demonietti come diceva, o li aveva scacciati assertendo il suo primigenio dominio?

L. chinò la testa con un moto di sospetto. Quando la risollevò era bella e fine come al solito. Era impensabile che un orecchio educato quanto il suo non avesse già riconosciuto ogni rumore.

— Dicevate di volermi sentire suonare ancora. Ebbene mi piacerebbe farvi udire il suono di un altro strumento posseduto dalla nostra Principessa. Si trova in una stanza adiacente e non è propriamente aggiustato, difatti vi sto lavorando. Si tratta di un vecchio, piccolo organo. —

— Credetemi, le mie speranze non differiscono dalle vostre. —

Era vero, dopotutto: lo confessò guardandosi velocemente attorno, e quando si trovò a scrutare per l’ennesima volta il barone, lo vide trasfigurato. Il giovane se ne rincuorò immensamente.

Guidò l’amico attraverso alcune stanze meno illuminate, inabitate da persone su cui non indagò affatto. Confidava che nessuno avrebbe curiosato nella cameretta arcana in cui era stato posto l’organo e nessuno li avrebbe seguiti.

La piccola sala aveva un che di religioso od esoterico. Era spoglia, disposta di tre sedie, un sedile ed alcune mensole.

Il giovane si affrettò a socchiudere l’enorme finestra, un arco a sesto acuto che con la sua vetrata attraversava tutta la parete di fronte alla quale si sarebbe trovato chiunque avesse suonato lo strumento. Una volta arrangiata una sedia vicino a sé, perché potesse discorrere col barone o tenerlo comunque in compagnia, lì si insediò il giovane musicista.

— Non indosso affatto le scarpe adatte… —

si lagnava nel frattempo il giovane. Seduto come quello fosse stato il suo domicilio naturale, guardava romanticamente alla finestra chiusa, alle poche nubi lattiginose che volavano nel cielo nero. Ogni cosa si sarebbe detta impossibilmente lontana: non esistevano più le voci dei commensali, tutto l’opposto della musica che tanto egli adulava, né i fantasmi di vite che furono.

Sembrò accorgersi in ritardo della domanda. Indicò, con la punta del dito perfettamente formato, un arabesco in foglia d’oro proprio sopra il manuale superiore: tra gli idealmente casuali riccioli, si scorgevano delle cifre, verosimilmente la datazione dello strumento che si scopriva essere rinascimentale.

Lentamente la bestia immota prese a gorgogliare. Cominciò poi a ruggire, e non smise più, tuonando remissivamente mentre il giovane esperto suggeriva:

— Non credevate forse di essere l’unico mago qui, barone. —

L’organo sarebbe pure potuto essere un falso, che la maniera in cui L. lo orchestrava l’avrebbe reso un tramite di capolavori. Tuttavia nulla poteva essere artificiale in quel luogo. Ogni dettaglio, sotto l’influsso benefico della musica, si faceva genuino e smascherato: e danzò.

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Personale

A venire (a-viso)

Chi mi conosce personalmente è abituato a lunghi silenzi interpersonali, nei quali mi maschero di frequente, ma che non significano nulla di negativo o irreversibile. Tali assenze sono bilanciate da periodiche esplosioni di contenuto. Questo non è un buon comportamento: idealmente produzione e riflessione dovrebbero accompagnarsi ed essere alternate ad intervalli ben più brevi e regolari — uno dei tanti buoni propositi, tutti accumulati alla porta.

L’estate di quest’anno non è stata certo la più impegnativa che ricordi. Nonostante ciò la direi affollata, quasi frenetica, quasi del tutto serena (per me: non per un certo compagno di tragitto a cui posso dichiarare la mia gratitudine soltanto da lontano, per non ferirlo) e sicuramente ha rappresentato un mattoncino utile per la mia crescita.

Che cosa c’è a venire?

In primo luogo alcuni progetti sempreverdi che prometto di curare da mesi:
un articolo pubblicato da terzi sulle vicende del cantante Giovanni Francesco Grossi, detto Siface;
il diario (e quanto più esaustivo possibile) dei viaggi che ho affrontato in luglio e agosto;
alcune pagine lasciate a metà di vecchia ispirazione, che sono luoghi ed epistole da tanto vivi nella mia immaginazione, mai propriamente descritti o definiti. Mai davvero afferrati. Ancora non li tengo in pugno.

Poi dovrei scrivere di musica (a proposito di musica: se le cose andranno come devono e se prima o poi mi negativizzerò, qualcosa di nuovo bollirà in pentola!), ma per farlo bisogna leggere di musica ed ascoltare musica; al momento, duole dirlo, le mie priorità risiedono altrove.

Bisognerebbe sempre perseverare nei propositi, ma com’è facile credersi muti quando siamo diventati sordi al suono della nostra voce.

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Commento, Filosofico, Personale, Saggio

Il passato che non si avvera mai – 14 luglio 2022

Il falso storico (dichiarato) e la rielaborazione del passato consentono un’operazione puramente artistica.

C’è il Compositore; le connotazioni del suo lavoro derivano in parte dalla sua persona. Ecco invece la mano del Falsario (onesto), nato forse come copista e certamente come studioso. Sono entrambi artisti. Il Falsario produce qualche cosa che il Compositore avrebbe potuto comporre e che non ha composto mai; non conoscendo la provenienza dell’opera è certo che le loro due mani appaiano sovrapposte e ne risulti una sola, come guardando un’ombra proiettata sul corpo stesso che la getta–non capita di rado.
Attenzione! Il Falsario ammette la paternità dell’opera, non tenta di incastrarla tra i lavori e le intenzioni del Compositore ma la rivendica per sé e dichiara anche che ha fatto riferimento al Compositore per produrla. Il falso storico è così dichiarato.
La rielaborazione del passato e la ricostruzione del passato non sono sinonimi e vanno intese come due operazioni distinte al fondamento: se possibile, la prima è il passo seguente alla seconda. La ricostruzione implica infatti una conoscenza del passato che può essere perfetta od imperfetta. Tale conoscenza è il cardine attorno al quale è costruita la rielaborazione: ha necessariamente per nome rielaborazione in quanto la conoscenza stessa dal passato coincide con l‘elaborazione del passato nel momento in cui non si abbia esperienza vissuta dello stesso. Anche in questo caso ogni passaggio dev’essere dichiarato oppure la sua esecuzione risultare evidente. Un esempio: leggiamo quanto Svetonio dice di Nerone, scolpiamo il suo volto ed una volta scolpito, colorato, lo trucchiamo, come pensiamo avrebbe fatto egli stesso o come quanto rimasto di Nerone appare a noi: abbiamo creato qualcosa di nuovo. L’operazione differisce molto dall’avere di fianco un amico e scolpirne il volto. Si potrebbe discutere persino se la suddetta pratica sia arte o artigianato (ma se ne scolpiamo il volto come lo vediamo allora è indubbiamente arte: questo può la parola).
In entrambi i casi il punto d’inizio dell’operazione artistica è un punto oltrepassato. Il forzato riferimento al passato nasce da una condizione necessaria: scongiurare il rischio della preveggenza. Se scrivessi di una stella lontana che, bruciando, si raffredda, e lo facessi persuasa di star componendo un lavoro d’immaginazione, quando un giorno questa stella fosse scoperta io stessa mi scoprirei veggente ed indovina. Quanto ho immaginato sarebbe realtà e il mio prodotto un prodotto artistico, immaginario, solo durante l’intervallo intercorso tra la sua produzione e la scoperta. Esiste arte non eterna? Pondero di no: allora non ho mai prodotto arte. Anche nel caso in cui l’immaginazione non fosse ritenuta parte fondante dell’arte un grosso problema rimarrebbe, e cioè che le mie intenzioni nel descrivere la stella sarebbero state ormai rovesciate e sarebbero quindi scadute di significato.

L’opera artistica nata dalla rielaborazione del passato o dal falso storico (dichiarato) è perfetta in quanto opera artistica.

L’opera in questione non può basarsi su una ragione differente dall’intenzione artistica, perché qualsiasi messaggio, propaganda o dottrina propugnata dall’autore sarebbe annullata dalla natura stessa dell’operazione. Se racconto una storia senza sforzarmi di farla credere vera ogni messaggio trasportato da questa non avrà più una base nella realtà. In tal senso l’opera è capace di comunicazione soltanto in senso artistico.
L’autore non può macchiarsi di plagio o avere una motivazione differente dall’intenzione artistica. Nel momento in cui si riconosce il Compositore in quanto tale e se ne ammette la centralità nell’opera si perde la speranza di ricavarne (anche monetariamente) qualcosa che sia dovuto al Compositore stesso. Potrei plagiare un bravo scrittore perché so che ne guadagnerei, ma nel plagio non può esistere rielaborazione–sono termini contraddittori; costruisco il falso per guadagnare sulle spalle del Compositore, ma nel momento in cui ne svelo l’autore perdo questa opportunità.
In terzo e ultimo luogo l’opera in questione finisce e termina in se stessa, acquisendo un’autentica eternità, perché non può mai cambiare di significato: si legga nei paragrafi precedenti il punto riguardo alla necessità di operare sul passato.

Lo scoglio maggiore nel trattare di questi temi resta la definizione di arte e artistico. Confido possa essere ricavata, almeno per quanto riguarda l’autrice, in maniera indiretta dalla lettura di altre riflessioni a riguardo e da questa stessa stesura. Il teatro e la poesia rientrano fra le conferme di questa struttura ipotetica.

L’opportunità di ritornare al passato come ad un pozzo permette realizzazioni infinite dell’ideale. In pratica, il passato non si avvera mai.

Questo è l’ultimo scritto dei miei diciannove anni ed i miei primi vent’anni vissuti si concludono così. Nonostante tutto, tra pochi minuti non sarà cambiato nulla. E ancora e ancora.

Un grazie all’amico L.F. perché, chiacchierando e tentando ieri di spiegare a lui questo mio pensiero, ho trattenuto tra le dita il filo così da scriverlo. Grazie anche a te che stai leggendo.

Scrivo dove capita: sul blog meno serio parallelo a questo https://ffoco.tumblr.com pubblico, sotto il tag #d’idilli e di pinakes, riflessioni più personali talvolta meno curate. Ho qualche viaggio in vista e su quella piattaforma nascerà un diario di bordo: ti invito a salpare con me!

Due film sul tema dello scritto: Il colore del melograno di S. I. Paradžanov e Il Casanova di Federico Fellini (ovviamente: vedi l’articolo precedente a riguardo).

Spira, spera

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Commento, Musica, Musicisti, Presentazione, Saggio

Ennio Morricone contratto: percorso per frammenti di melodie – 2022

La tradizione musicale italiana—in particolare modo quella popolare ma non solo, perché affiancata dal bel canto—trova nella melodia il suo cardine e la sua finalità. La melodia ci rimane in testa; si ripete, consciamente o no, nei momenti di noia; la fischiettiamo, la biascichiamo pur sicuri che non perda il suo carattere, almeno nel nostro orecchio. Troviamo un tema molto bello quando ci risulta familiare e facilmente riconoscibile.

Il nome Morricone evoca temi grandi e spiegati. Talvolta con molte parole si dice meno che con poche note: ne è un esempio l’Estasi dell’oro, utilizzata anche come sigla per i David di Donatello.
Ci caliamo in un polveroso paesaggio dipinto da Sergio Leone ed ecco in lontananza il coyote ululare: ua, ua—vocalizzi (Il buono, il brutto e il cattivo; Per un pugno di dollari). L’America cambia di fronte ai nostri occhi di migranti, ma la permanenza non è così dura se accompagnata dal fulgido soprano Edda dell’Orso (C’era una volta nel West, C’era una volta in America). E poi foreste pluviali, cadenti cinema di provincia, fabbriche o gialli, per novant’anni.

Negli anni ’90 la produzione media nell’ambito della musica da cinema sarà per Morricone di quattro titoli annui; agli inizi e nel pieno della vena creativa saliva a diciotto. Il maestro raramente ha rifiutato pellicole, pur mediocri che fossero: per sua stessa ammissione questa cedevolezza si può addurre ad una debole critica dell’operato altrui come ad una forte fedeltà nei confronti della propria arte. Al contempo sono molti i grandi film immortalati da Ennio.

Il tema dell’oboe di Gabriel costituisce quel Verbum capace di riallacciare tra loro cuori umani nati differenti, e non rappresenta una costruzione metafisica, ovvero la voce del compositore che musica un film, ma un elemento diegetico di fondamentale rilevanza senza il quale la pellicola rimane zoppa.
Sembra che si debba incolpare il regista di Mission, Joffé, per aver voluto confusamente sovrapporre nelle scene finali le tracce Gabriel’s Oboe ed Ave Maria Guarani contro il consiglio dello stesso Morricone. La musica si mette nei momenti di calma e staticità, diceva Ennio, quando il dinamismo cessa e i personaggi pensano: allora la musica racconta la loro interiorità.

Difficile convivenza tra artisti di arti differenti: il compositore e il regista non ragionano allo stesso modo. Morricone si esprimeva a riguardo proprio parlando della melodia. La melodia non basta perché la musica aderisca al film e da sola non può fare nemmeno una buona colonna sonora, diceva; ma la melodia è l’unico mezzo attraverso il quale comunicare con il regista.
Così troppo frequentemente in favore di “un esercizio di intervalli” dimentichiamo gli splendidi tappeti sonori intessuti che sono stati l’arte stessa di Morricone: e poi gli esperimenti di traccia avanguardistica (L’ultimo uomo di Sara), le partiture da eseguire in maniera aleatoria e irripetibile (L’uccello dalle piume di cristallo); perché no, gli arrangiamenti di cui il compositore non andava fiero—come per Salò, o le 120 giornate di Sodoma.
Lo stesso Pasolini cedette poi carta bianca al compositore, che si era opposto alla prospettiva di arrangiare ancora materiale già pronto, come da precedente richiesta. Ne nacque quel capolavoro di Uccellacci uccellini.

Un Morricone autentico firma la significativa collaborazione con Elio Petri. Il tappeto sonoro de La classe operaia va in paradiso, ad esempio, è fastidioso, meccanico, scandito da martelli martelletti trombe: parossistico. Siccome siamo italiani—siccome siamo umani—la melodia ci manca.
Eccola. La melodia si libra da un violino quasi patetico ma di una smielatezza pacchiana come pacchiano è l’arredamento nella casa del protagonista: non v’è dissonanza che non sia anatomica o nostalgia senza risvolti cupi e ridanciani, non v’è rasserenarsi di quel cielo intellettuale ed emotivo che l’arte raffigura con onestá. Soltanto consonanza, simpatia di corde e forse un pizzico di pietá.
D’altronde è vero che l’azione basta a se stessa: nel vuoto si mette la musica.

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Beauty, Essay, Philosophy

On Beauty – 2018/2019 [Eng]

The matter of beauty has been one of the topics upon which humankind has persistently dwelled throughout history – perhaps since its very birth: it is not safe for us to assume the petroglyphs devoid of any intellectual importance, though trying and forcing on them some developed thought would come across as presumptuous. This we cannot be sure about. Nevertheless one thing proves to be certain: humankind’s obsession with beauty and with its acknowledgement dates back to the earliest written sources, at the very least.

Philosophy has fed its most prominent thinkers on it. Literature made a paradigm out of beauty more often than not, whilst music soon engaged itself in strict aesthetics. To this day, the name of Art sounds like a synonym for beauty: to describe a mundane object as a work of art means to elevate it and deem it solely, imperatively beautiful.

In both music and art, mathematical proportions were long reckoned as the key to achieve beauty itself. Almost as, if not even more deeply rooted was the ethical link between beauty and goodness.

Suppose we were to follow such norms nowadays: first we would have to defy entire new schools of thought, glimpses or reminiscences of which we can see reflected on modern day society and common knowledge (the next couples of examples will not be discussed thoroughly nor with the appropriate depth – it is important to bear in mind that this whole essay will be streamlined for the sake of briefness): for instance, The Picture of Dorian Gray and Francis Bacon’s artistic production.
Oscar Wilde’s novel breaks the once indissoluble bond between good looks and moral integrity: its “hero” has exchanged one for the other, meaning that they either coexist or lead separate routes, while an identity involving them both is not necessary nor truthful to reality. The rotting painting serves as a display of what reality hides, for the picture idealizes reality itself, shaping it and reacting agreeingly to the precepts of kalokagathia – thus condemning such a concept to work only on dream-like distortions of what is tangible and, in fact, possible. The soul decays, disembodied, isolated, losing its humanity crime by crime. Thus we come to the following conclusion: one’s soul shall be good to qualify as beautiful, while the aesthetic of objects does not inherently spoil nor heighten their inner virtue.
Francis Bacon’s opus evades proportion. Because of that the pictures come across as striking and beautiful in their own sense – deformity, the very archetype of what beauty should not look like, now earns its legitimate spot in what could have otherwise been a conceptual universe made out of canons, if not for such exceptions.


Of course these two examples are extremely generalised: they do not note the first and most influencing contraddiction to such widely spread classical dogmas – on the other hand, both of these are wildly renown instances which do not date too far back from us and still survive in pop culture. Arguments of this nature seem hazardous – they probably are: to put side by side masterpieces from completely different eras without acknowledging what happened before and after them serves only one purpose: that is to underline and determine that a change, whatever that may be, has indeed happened in humankind’s definition of beauty. Thus it is possible to establish that changes in that matter may happen and – surely – happened before. But what does changing the definition mean? better: is it safe for us to suggest that somewhere exists an unchangeable idea of Beauty, which we cannot have any influence on and that exists far from its many depictions, or does that prove that words and concepts vary at the same pace? What is more likely to exist: the very essence of Beauty which words have always failed to express or various types of beauty, all at once, each and every single of them matching to its unique definition? Or else: are our words capable of altering beauty itself? Can we create beauty, identify it, or neither of them?

All of these questions would come across as pointless, were we to agree that Beauty is one and subjective. We could then suggest that beauty is synonym with equilibrium: an object, to be beautiful, must be balanced towards its own aim and never vary from it nor change its purpose – on the matter of visual beauty or aesthetics, such balance must assure an elegant, yet precise impact on the viewer without scattering his focus all around. Beauty must thus assure distinction from the rest. Suppose, though, that one who has a blank mind need to be influenced by an unbalanced phenomenon to reinstate his inner equilibrium – untidiness pushes him to say: this is beautiful.
We could then propose a new definition of beauty, which is unrestrained and does not follow any moral nor ethical law: Beauty is what fulfills our senses and our needs, whether those belong to generalised mankind or to a single man.
Beauty is what frees us from lacking of any kind – it is what completes us. What is beautiful satisfies and pleases our senses – it moves us.
It would not sound too daring, at last, to define Beauty as a force which causes freedom, fulfillment – and, because of these both happening at once, happiness – from the tiniest sprinkle of it to true Happiness. The form which Beauty takes upon acting on each and every single one of us lastly boils down to a matter of subjectivity.

Suppose that we accept this definition: it would go without mention that Beauty is not only nor merely an aesthetic force, but it is inescapable and it trascends every object, shaping itself in order to act accordingly. Yet: if everyone who exists must and will experience Beauty, where is it to be found? Is there a place, a source from which we can fulfill our needs or please them? Or is Beauty similar to some sort of energy, being radiated by objects of any kind? Perhaps this outcome would please us the most – it is not uncommon to mention any kind of object as beautiful, regardless of its species, nature or of any other criteria save beauty itself, just as it is. Else, another explanation could be that all which we deem as beautiful we do it because we project ourselves – better, our needs and tastes – on it: in this case aesthetics would not have any importance nor basis, except for analyzing the ensembles of standards arbitrarily listed and changed by mankind throughout the centuries, that do not appear to have any presumption of “truth” to themselves.
In this case, what is beautiful satisfies certain canons.

This last suggestion does not explain why some thing are universally recognised as beautiful, highlighting a defect the other two arguments as well, which would be satisfied only if we were to agree that our concept of aesthetics is completely artificial and has little to nothing in common with the essence of Beauty.

When analyzing the paintings by Lucian Freud and Giacomo Grosso we stumble upon two different scenes: in Freud’s detail, a reclined female head spares the audience from its gaze, which is lowered. Her lips are parted, as if caught while moving: however she is still and appears to be lying on some sort of cushions. This is a very intimate moment, in which Belle, the model, who doesn’t possess stunning good looks to begin with, evokes a tender still of our lives – to the painter, Belle was a daughter. Grosso’s Femme is nothing short of grand and stunning. The woman faces us bravely. She is drowning in a sea of white, light and precious garments.
However, these two pieces strike each different chords – the first piece could come across as nostalgic and confidential, very much felt, while the second picture aims to a public quite blatantly – making it impossible to compare them. Upon seeing them at an exhibition, I would not be moved by them: thus, personally, I would not deem them beautiful. Freud’s work captures and portrays a beautiful moment: Grosso’s woman seems to have been clothed with the finest techniques. Both of these virtues I can recognise.

Beauty shall be a much greater thing.

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Commento, Filosofico, Saggio

A lato della lettera di Federico Fellini ad Andrea Zanzotto. Sulla pseudo-ricostruzione storica in arte (o ricostruzione artistica del passato)

Relativo alla celebre lettera scritta da Federico Fellini nel luglio 1976 ed indirizzata ad Andrea Zanzotto, dove il regista richiede al poeta la composizione di un inno apotropaico ed una filastrocca in petèl per la relizzazione del film Il Casanova di Federico Fellini. In particolare, riguardo a parte del seguente paragrafo:

Ora provo a manifestartelo: vorrei tentare di rompere l’opacità, la convenzione del dialetto veneto che, come tutti i dialetti, si è raggelato in una cifra disemozionata e stucchevole, e cercare di restituirgli freschezza, […] o meglio riscoprendo forme arcaiche o addirittura inventando combinazioni fonetiche e linguistiche in modo che anche l’assunto verbale rifletta il riverbero della visionarietà stralunata che che mi sembra di aver dato al film.

Seguono gli appunti registrati a matita:

finzione ricostruttiva come massima sincerità artistica

Come può essere definitivamente artistico qualche fenomeno che non possegga termine di comparazione? Nell’inconoscibile/non scibile potrebbe essere reale come nel futuribile. Esempio: invento una stella che consumandosi irradia gelo. Ne faccio un perfetto termine letterario metaforico ecc. e nasce unicamente a tal scopo. Creazione artistica. Ecco che domani qualcheduno scopre una stella con proprio queste caratteristiche. Allora la mia stella perde il valore di creazione artistica e partecipa non più all’arte ma al (cieco) realismo: soltanto che inizialmente non lo sapevo. Considerato che non si aggiungano altri valori alla creazione prima allora il mio risultato scevro di intenzione si sovrappone come trasparente alla realtà. La ricostruzione del passato offre invece l’opportunità di pure e certa creazione artistica, posto che il passato sia conosciuto.

Arte = creazione di astrazione comunicante

(posto che il presente non esiste in questo sistema di riferimento per filosofia conosciuta)

questione di creatività retroattivamente significante

Ti consiglio caldamente sia la lettura della lettera (presente in ogni edizione di Filò in mio possesso, anche nell’opera omnia di Zanzotto pubblicata da Oscar Mondadori quest’anno) (ma, se ti interessa davvero averla, scrivimi pure! ;)) che la visione del film alla cui realizzazione questa contribuì.

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